Girolamo Ridolfi
Girolamo Ridolfi, alias Giovanbattista Rossi, alias Girolamo Lucchini
Girolamo Ridolfi nasce l’11 dicembre 1742 dal conte Antonio Ridolfi e dalla moglie Maria, nella parrocchia di Ca’ de Oppi, vicino a Verona. Appartenente al ramo cadetto della famiglia, entra a 16 anni nei corazzieri della Repubblica di Venezia. La disciplina non fa per lui e esce dal corpo militare per abbracciare uno stile di vita spericolato, fatto di espedienti, che lo porterà a coltivare l’abilità di falsario.
Vive per un certo periodo a Padova col nome di Giovanbattista Rossi, in un ambiente bohémien, dove incontra Francesca Perini da cui avrà il figlio Antonio che lo raggiungerà in seguito a Bologna.
Condannato, per l’attività di falsario, dalla Repubblica Serenissima, è rinchiuso nel carcere dei Camerotti, da cui evade con una chiave di sua fabbricazione. Dopo esser stato in alcune città dell’Italia centrale, Girolamo, arriva a Bologna, dove nell’ottobre del 1772 incontra Berenice Seracci, vedova Nanetti, una donna di mezza età che mantiene sé e la figlia con lezioni a domicilio a fanciulli e fanciulle e con l’affitto di una casa che possiede in via dell’Abbadia. L’incontro è fatale per entrambi; non si separeranno più e convivranno senza sposarsi anche con i rispettivi figli, cercando di salvare le convenzioni sociali. Berenice diventa ben presto complice del Conte Lucchini, nome con cui Girolamo Ridolfi era conosciuto a Bologna ed è coinvolta nella fabbricazione e nello smercio delle monete e nei furti di stoffe e denaro.
Alla fine del 1788, Lucchini confida a Berenice il Colpo Grosso che ha in mente: un furto al Monte di pietà, dove bolognesi poveri e ricchi depositano i loro averi per ragioni diverse. Un furto impensabile ed impossibile! Nonostante ciò, nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1789, Lucchini compie la sua impresa, senza la complicità di nessuno e servendosi di attrezzi che ha fabbricato in casa durante mesi di lavoro. Con una scala pieghevole, sale fino alla finestra nel cortile del Monte, sega un’inferriata, rompe il vetro e lo sostituisce subito affinché non si noti nulla dall’esterno. Entra negli uffici e con un fornelletto fabbrica lo stampo e la chiave della stanza dei pegni preziosi: una chiave falsa per arrivare a monete e a gioielli veri!
Senza né mangiare né dormire né bere, lavora per un giorno e mezzo, finché riesce a calare la merce dal vano della finestra; lascia in giro arnesi da scasso perché vengano ritenuti colpevoli del furto malfattori esterni e non gli impiegati del Monte. Torna casa da Berenice con cui concorda come comportarsi nei giorni a venire per non destare sospetti. All’indomani, Bologna è sconvolta dal furto, scattano immediatamente le indagini: prima all’interno dello stesso Monte e poi in città.
Viene emanato dal Legato un editto di impunità e un premio in denaro a chi aiuta nelle ricerche. Le indagini sono a un punto morto, ma una soffiata porta i birri nella casa di Lucchini, presso il Ponte della Carità, dove vengono arrestati lui e Berenice: il primo perchè in possesso di un’arma da fuoco proibita, la seconda perchè con mossa furtiva cerca di far sparire un orologio d’oro.
Durante la prigionia dei due nelle carceri del Torrone, si susseguono estenuanti interrogatori separati che non portano a nessuna conclusione risolutiva, a parte la constatazione di un loro stile di vita ai limiti della legalità e della morale del tempo. Improvvisamente però, nel marzo del 1790, Berenice fa chiamare l’uditore del Torrone e in cambio dell’impunità rivela il nascondiglio, sotto il pavimento della casa del Lucchini, dove si trovano la refurtiva e anche gli ordegni speciali.
Per Lucchini è l’inizio della fine: tenterà di negare tutto, anche la fabbricazione di monete false; alla fine confessa di essere il solo autore del “Furto Magno” e, per evitare la tortura dei tasselletti su Berenice, ammette anche la falsificazione delle monete. Nonostante le complicate procedure giudiziarie e l’appassionata difesa dell’avvocato Magnani, che riesce a far commutare la pena dell’impiccagione, infamante per un nobile, in quella della decapitazione, il processo si conclude con la condanna capitale, eseguita la mattina del 26 febbraio 1791 nella Piazza del Mercato, oggi Montagnola, dove il Nostro verrà decapitato, entrando così nella leggenda e recuperando lo status di nobile che aveva inseguito in vita.
Fonte:
(Grazie al maestro Valentino Mazzoni per la segnalazione)