Donato Bilancia

Perizia di Andreoli

La sua situazione si venne negli anni stabilizzando, nel senso che egli si raffermò in quella che egli chiama " la mia professione ", che candidamente e, bisogna dire, senza ironia, definisce " quella del ladro ". La vita che faceva gli rendeva bene economicamente (aveva, dice con semplicità, BMW e Porsche), ed il suo modello dell'Io, che riuscì a realizzare, era quello di un ladro ad alto livello, uno specialista, ladro nelle case, con capacità tecniche, in grado di inattivare un sistema di allarme e di forzare una porta blindata di una cassaforte, assieme ad un certo cosmopolitismo, sempre in giro per il mondo (con un doppio passaporto) e ad un certo grado di attitudine alla Arsenio Lupin di quello che ruba dove ce n'è e non danneggia nessuno.

Questa, diciamo così, professione clandestina, lo portò ad alcuni problemi colla giustizia. Dai 20 ai 30 anni fu spesso in prigione, globalmente, al suo computo, numerosi anni.

Nonostante la sufficiente riuscita di questo modello, gli dava in qualche modo la figura di un trasgressivo e di un criminale con un certo " a plomb " e ad un certo livello, tutto ciò non riusciva a superare i suoi profondi sentimenti d'insufficienza che si esprimevano nella solitudine e nella fragilità di fronte al tradimento. Il senso di solitudine era pressoché totale, ed egli faceva fronte a questo tramite una vita sociale forzosa, una sorta di tendenza artificiosa alle relazioni, che lo portava ad essere prodigo, a prestare e ad elargire denaro per ottenere compiacenza ed attenzione, per essere in altre parole voluto, e ad impegnarsi sempre più nel gioco d'azzardo (qualsiasi tipo di gioco, egli afferma): non c'è soggettivamente nella narrativa del signor Bilancia il vissuto soggettivo del "gambler", del gioco come discontrollo degli impulsi, ma piuttosto del gioco come tramite alla socializzazione, al rapporto cogli altri, al tentativo in realtà vano di superamento della solitudine interiore tramite la creazione di legami d'intesa e di solidarietà apparente. Finito il suo "lavoro", che tra l'altro non garantisce orari continuativi, finita l'attività nella piccola officina che aveva a casa, corollario necessario all'attività di scassinatore (torni, banco di lavoro per chiavi, passpartout ecc.) il senso di essere solo lo assaliva e veniva colmato con pseudoattività sociali e con il "gambling ", o indifferentemente, poteva portare a pranzo uno sconosciuto. Tuttavia non potremmo escludere che una tendenza al piacere del rischio, alla soddisfazione intensa, alla bramosia d'azzardo, non fossero presenti ad inquadrare certi aspetti di discontrollo pulsionale. Ma non c'è dubbio che il terrore della solitudine ha giocato qui un ruolo di primo piano. La sua tendenza alla prodigalità e alla grandiosità ("mi sono giocato almeno due miliardi ") è anche ovviamente legata al suo sentimento d'umiliazione e di vergogna del suo isolamento e del suo essere abbandonato antico ("mi vergognavo ad andare al ristorante da solo ").


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